Giulia

Quando iniziai a leggere Thoreau non fu per caso, ma per scoprire come fosse arrivato a scrivere esattamente quello che io stessa pensavo riguardo all’andarsene da soli, into the woods, per provare cosa significasse vivere senza le costrizioni della civilizzazione – che sono fonte e danno – e fronteggiare solo i fatti essenziali della vita. Anch’io vivevo nel timore di guardarmi indietro e scoprire di non aver vissuto e non volevo vivere ciò che non era vita, ma succhiare l’esistenza fino al suo midollo.

In quel periodo vivevo ancora da mia zia, una sistemazione che avrebbe dovuto essere temporanea – massimo tre mesi – e che si trasformò inesorabilmente in un soggiorno di tre anni. Fu un periodo di stasi e allo stesso tempo di grandi mutamenti, interiori e non. Al tempo ancora studiavo e lavoravo, ovvero facevo un dottorato di ricerca sulle prime collezioni poetiche di Seamus Heaney. Ma questo è solo il contorno di quello che al tempo pensavo sarebbe stato il senso della mia vita: l’amore e le sue disavventure. E parlo sul serio nel chiamarle tali, perché dentro di me era un tumulto emotivo che raramente poi ho trovato nei racconti di altre persone. Perché forse era nel dolore che trovavo un po’ di piacere e nella rabbia quella scossa emotiva che mi facesse sentire viva. La mia psicologa diceva che amavo così e vivevo in una perenne forma di insoddisfazione sentimentale perché conoscevo solo quel tipo di attaccamento: turbolento e instabile. E così mi adagiai su questa interpretazione, sentendola mia e nascondendomi dietro all’etichetta di essere qualcuno che non avrebbe potuto provare un amore stabile e nella stabilità trovare appagamento. Era come se le relazioni a cui sarei andata incontro sarebbero state quelle che Heaney, appunto, chiamava stepping stones, pietre lungo un fiume da dover guadare per arrivare dall’altre parte. Che poi… dall’altra parte dove?

Quante pietre prima della stabilità. Infatti, quando conobbi Giulia provai amore: un amore instabile. Giulia era bella, alta, piena di vita e di altrettanta insicurezza, fatta di sorrisi e incertezza, gioia ed esitazioni. Il suo modo di fare era travolgente, entusiasmante, eccitante. Mi teneva incollata al telefono giornate intere. Andavo a letto alle tre di notte e mi svegliavo alle 7 nella speranza di non aver mandato io l’ultimo messaggio e di trovarne già uno suo rimasto dalla sera prima, in modo da agganciarmi a discorsi che avrebbero aperto ad altre infinite ore di comunicazione. Una famiglia tradizionale per tante cose, per altre che si sforzava di adeguarsi ai tempi che cambiano. Una serie di relazioni complicate che per tante cose avevano confermato le sue insicurezze, per tante altre le avevano insegnato da cosa fuggire per raggiungere la felicità. Iperstimolata da un’infanzia fatta di musica, sport, arte, cinema, viaggi, le sue passioni a me sembravano troppo poche e superficiali, mentre erano solo concentrate e profonde.

Giulia era questo e molto altro. All’inizio pensavo che la nostra attrazione fosse dovuta in gran parte dall’avere una ferita simile, un trauma, un qualcosa che ci faceva sentire anime così affini. E invece forse era solo che, a 30 anni, stavamo entrambe cercando una direzione, un obiettivo, un futuro. Solo che lo guardavamo da rette parallele, che non si sarebbero forse mai incontrate.

Fu bello con lei. Tutto. Fare l’amore, il suo odore, le sue risate, le sue attenzioni, il suo microcosmo di cui mi rese parte per un po’. Ma io mica sapevo amare, e neanche sapevo la responsabilità di far innamorare, come se fosse normale essere sé stessi senza aspettarsi che l’altro avrebbe potuto amare tutto di me. E così fu, che non sapendo cosa fosse l’amore, pensai che fosse quello, e lei pensò uguale, anche se, invece, lei come si amava lo sapeva eccome.

Nella primavera di quell’anno andai a fare una passeggiata sul mare con una mia cara amica, Clarissa, che al tempo era impegnata nei preparativi per l’imminente matrimonio. Ad un tratto cominciò a raccontarmi che in quei giorni sia lei che il suo fidanzato, Pietro, si trovavano a pochi chilometri di distanza per visitare i genitori che abitavano in città limitrofe. In quel breve tempo, quindi, i due non condividevano i benefici della convivenza a cui erano abituati. Invece che sentirsi sollevata dal momentaneo distacco, Clarissa era in uno stato di mancanza e proprio quel giorno aveva scritto a Pietro quanto le mancasse, nonostante non si vedessero da pochissimo. Ad un tratto mi guarda e, con il sarcasmo che la contraddistingue, dice: “Io non riesco a capire la mia fortuna nell’averlo trovato. Scalpito perché arrivi ottobre di modo che, sposati, lui non possa più tirarsi indietro, neanche legalmente. A quel punto ormai l’avrò ufficialmente accalappiato!”
Ecco, io mi trovai in difetto, forse in imbarazzo con me stessa, una sorta di disagio non identificato che mi portò a pensare che io, probabilmente, non sarei mai stata capace di amare in quel modo, con la fretta di ricongiungermi, il malessere dell’assenza, la promessa del cerchio d’oro del per sempre, ma solo a modo mio, in maniera turbolenta e instabile.

Durò un anno, e tra spostamenti e distanze, con Giulia riuscimmo comunque a viverci di quell’intensità dei primi tempi, ancora più incentivata dalla concentrazione temporale a cui eravamo sottoposte dati i 300 km di distanza. Ma ci vivemmo troppo, troppo a fondo, ci scavammo troppo dentro e la storia finì, come tante altre storie che sembrano fatte di magia e poi si rivelano sogno. Questo “troppo” mi tormentò per molto tempo prima di capire che era dovuto al fatto che io ero un vaso piccolo, e non sarei mai riuscita a contenere la quantità di sentimento che lei voleva – e aveva bisogno – di riversare in me, tanto da infastidirmi il fatto di sentirmi amata.

Si dice che tutto quello che si cerca dalla vita è poter amare ed essere amati a propria volta, mentre io ho sempre avuto paura di essere amata e del non riuscire ad amare nella quantità con cui vedevo gli altri farlo, ma solo con quella turbolenta instabilità che mi contraddistingueva.

Non cercai mai i perché del mio modo di amare. A che scopo? Serviva forse sapere che mia madre mi aveva dato poco affetto da piccola? O che la comunicazione emotiva era venuta a mancare fin dagli albori? No. Inutile direi. Non possiamo passare la vita a psicanalizzarci. Ormai avevo quello che avevo, ero quello che ero. Potevo solo prendere il meglio e usarlo per amare, almeno un po’, a modo mio.

Quindi con Giulia finì e io ci ripensai per un po’ di tempo. Ma il tempo leviga come l’acqua lima i sassi in fondo al fiume, e la mente tende ad allentare le tensioni col passare degli anni. E quindi Giulia divenne un ricordo bello, fatto di sole, in cui entrambe si crebbe e ci si volle bene, ma bene per davvero. E anche se durò solo un anno, non detti mai un tempo a quell’amore. Ci ostiniamo a volere l’eterno, a volerci giurare che le cose non cambieranno.
L’eternità è un concetto interiore e per me Giulia vivrà per sempre, e con lei il nostro amore, come un reperto antico che prima o poi dissotterrerò.

- K

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Tutto quello che non ci siamo detti